La letterina di Natale
Un contributo di Fosca Andraghetti
Sabato, 5 Dicembre 2020
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C’era una volta la letterina di Natale scritta a mano...
Dicono che sarà un Natale diverso, c’è il COVID-19, c’è la pandemia, ci sono tante nuove e difficili convivenze che, spesso, diventano complicazioni. Credo sia normale voltarsi indietro, ricordare i Natali di un tempo, quelli di cui ho memoria. Nella grande casa di contadini, spersa come altre tra i campi spesso bianchi di neve, ho vissuto questo evento prima come un giorno di festa dove si mangiavano cose buone cotte nei grandi forni a legna che, i più abbienti, mettevano a disposizione di chi non l’aveva. Poi a scuola scopersi altre cose: i giochi sul sagrato della chiesa imbacuccati, noi bambini nei capotti fatti e rifatti, la Messa tutti insieme nei primi banchi. Infine, il ritorno alle nostre case, le tavole apparecchiate con la tovaglia “buona” dei giorni di festa come le pietanze che avremmo mangiato.
Scoprii la letterina di Natale, da scrivere ai genitori o ai nonni. Si acquistavano nella bottega del paese che vendeva di tutto un po’. Quel primo anno mia madre me la fece scegliere. Mi basta chiudere gli occhi per rivederla con le immagini nella parte superiore del foglio: il presepe con la Madonna, San Giuseppe e Gesù nella culla. Tutt’intorno gli angeli, i pastori, le pecore con il bue e l’asinello. In cielo la cometa nel blu della notte e quella polverina dorata che faceva tanto magia. Erano tutte belle, immagini ricche di colori e di riccioli, le righe distanziate a seconda della classe a cui erano destinate.
La maestra ci aiutò a scriverle nel quaderno per poi ricopiarle in bella, senza fare errori.
“Cara mamma e caro babbo…”. Che regalo chiedere? Ero piccolina e in casa mia questa era una cosa nuova, inoltre sapevo bene che le nostre possibilità economiche erano scarse. Così chiesi cappelletti, zuccherini e arance per noi davvero rare.
“Mettetela sotto il piatto del babbo.” Ci aveva detto la maestra.
Mio padre finse di non vedere la mia lettera e nemmeno quella di mia sorella seppure ben in vista. Mia madre gli disse: “Aprila, così mangiamo i cappelletti che si stanno raffreddando.
Lui le aprì, poi si alzò da tavola e ritornò con due sacchettini di carta che ci porse.
“Tu aspetta!” mi disse ridacchiando. Si avvicinò alla madia, l’aperse è ne trasse una scodella di cappelletti fumanti. Non capivo: ne avevo già un piatto davanti! Mamma fece finta di nulla, mia sorella incrociò le braccia risentita.
“Fa parte delle cose che hai chiesto nella lettera! A entrambe grazie per le promesse fatte. Siate brave entrambe!”
Il mio sacchetto conteneva arance, mandarini, noci secche e un pezzettino di carbone, residuo di legna bruciata nel camino. Non era del tutto ciò che avevo chiesto, del resto mio padre la lettera l’aveva letta solo poco prima. Mia sorella aveva un contenuto identico con l’aggiunta di zuccherini. Perché a lei sì e a me no?
Mi venne l’acquolina in bocca così le dissi:
“Se mi dai un zuccherino, no due, ti faccio assaggiare i cappelletti dalle tazza!”
“Li sai fare bene tu i conti!” esclamò mia madre tra le risate di tutti. E dopo fu un incrocio di parole, scherzi e risate. Un Natale magico anche perché nel pomeriggio arrivarono i nonni materni: ad ognuna consegnarono quella che oggi chiamano la paghetta.
“Se mi dai un po’ dei tuoi soldi, ti faccio giocare con la mia amica Jolanda e…” disse mia sorella.
Ecco, il mio Natale era quello: la sorpresa di un regalo, piccole cose, l’abbraccio dei nonni e il sorriso di mio padre e di mia madre. E quella lettera di cui si sono perse le tracce, ma non il ricordo.